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Su Georgia O’Keeffe

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Questo articolo è uscito su Flair, che ringraziamo.

La sua camera da letto è spartana, quasi monastica. Si vede un letto singolo e quasi niente intorno. Appesa alla parete, una mano di Buddha dorata. Basta muovere di poco lo sguardo e un’immensa finestra si apre su un paesaggio di rocce gialle e cespugli verdi. In lontananza, le pareti bianchi di un canyon dove Georgia O’Keeffe amava andare a camminare… Cambio di scena: uno dei suoi quadri più celebri esposto al Metropolitan Museum di New York si chiama “Cow’s Skull: Red, White, and Blue”, è del 1931.

Ed è esattamente quello che dice il titolo: un teschio di mucca su un fondo rosso, bianco e blu. È il primo della lunga serie di teschi di animali che insieme a fiori esageratamente grandi e paesaggi del Southwest hanno reso celebre O’Keeffe. I teschi come li raccoglieva quando non c’erano fiori, proprio in quei suoi felici vagabondaggi nelle campagne intorno a Lake George o nei deserti del New Mexico, per portarseli a casa e avere qualcosa da dipingere.

“Volevo qualcosa su cui lavorare”, avrebbe raccontato intervistata negli anni settanta dalla documentarista Perry Miller Adato. Negli anni avrebbe ripetuto più volte, a giornalisti e curiosi, che con i suoi teschi non aveva nessuna intenzione di raccontare la morte, e che chiunque è stato in un deserto dovrebbe sapere che le ossa che trovi sono l’unica forma di vita.

A trent’anni dalla sua morte (6 marzo 1986) e a cento dalla sua prima mostra (aprile 1916) Georgia O’Keeffe verrà ricordata con una grande retrospettiva alla Tate Modern di Londra che inaugurerà il 6 luglio del 2016. Settant’anni di opere che dal suo primissimo apparire sulla scena newyorkese l’avrebbero resa a detta del suo biografo Hunter Drohojowska-Philp “l’artista più famosa e meno compresa del XX secolo”.

Adorata in particolare dalle femministe (anche solo per essere stata una delle prime artiste a essere state ammesse nei musei e ad avere ottenuto pari riconoscimenti in vita dei colleghi uomini), O’Keeffe sfuggiva a qualsiasi forma di appartenenza a moltitudini e movimenti, preferendo il confronto individuale (più epistolare che fisico) con fotografi e artisti maschi, a partire dal marito, il fotografo e gallerista Alfred Stieglitz, protagonista insieme a lei di una parimenti famosa e altrettanto incompresa storia d’amore, e in parte artefice del suo successo.

Quantomeno all’inizio. Fu lui a organizzare le prime mostre di O’Keeffe, a decidere il prezzo di mercato delle sue prime opere, a indirizzarla verso una celebrità dovuta tuttavia quasi esclusivamente al valore effettivo del lavoro di O’Keeffe. Decenni dopo la morte di Stieglitz O’Keeffe sarebbe rimasta O’Keeffe, l’artista donna più celebre del XX secolo.

A volere cercare l’unicità nell’arte di O’Keeffe bisogna salire su un aereo e viaggiare in cerca dei suoi tanto amati paesaggi del Southwest. Bisogna arrivare fino in New Mexico, e scoprire che il famoso pino di D.H. Lawrence (“The Lawrence Tree”) esiste veramente, è appena fuori la porta del minuscolo ranch dello scrittore a San Cristobal, vicino la cittadina di Taos. Basta sedersi sotto la panca di legno (“quella su cui si è seduta O’Keeffe per dipingere l’albero”, vi dirà la guida), alzare gli occhi verso il cielo e riconoscerlo come da una fotografia.

O che le colline, le montagne e i canyon dei suoi quadri sono rossi e blu e bianchi come nei suoi quadri. Nessun colore, forma o linea è stato inventata. Tutto esisteva in natura quando lei lo dipingeva, e tutto continua a esistere dopo che lo ha dipinto, misteriosamente immutato da quasi un secolo di accadimenti. Non c’è nessuna finzione nella pittura di O’Keeffe, solo un talento particolare nel guardare la realtà e trasformarla in opera d’arte. E riempire di bellezza lo spazio.

L’idea che l’arte serva a “riempire di bellezza lo spazio” prima che di O’Keeffe era dell’artista e insegnante d’arte Arthur Wesley Dow, pioniere nell’America dei primi del Novecento nel promuovere l’importanza della composizione così come concepita da secoli nell’arte giapponese (Hokusai tra i tanti). Quando O’Keeffe si imbatté nelle teorie di Dow aveva poco più che vent’anni e aveva già rinunciato a fare l’artista, ripiegando per la più facile carriera di insegnante. “Cominciai a rendermi conto che in molti avevano realizzato quel tipo di pittura prima di me”, scrisse anni dopo nella sua breve e intensa autobiografia. “Lo avevano già fatto e io non mi ritenevo in grado di fare meglio. Sarebbe stato inutile, così smisi di dipingere per un pezzo”.

A convincerla a riprendere fu la possibilità che l’arte potesse coincidere con la vita, e che più che l’inutile talento di riprodurre opere già ottimamente realizzate da altri, diventare artista richiedesse la capacità di trovare un modo personale e originale di esprimersi. La realtà non va riprodotta ma “composta”, teorizzava Dow, accendendo gli animi di giovani pionieri della fotografia e della pittura, che insieme a O’Keeffe avrebbero ridefinito il paesaggio e le possibilità dell’arte americana.

O’Keeffe si confrontava più con gli uomini che con le donne, dicevamo, senza tuttavia negare o rinnegare la propria identità di genere. Del femminile più che la remissività riconosceva il valore della natura avventurosa: la capacità tutta femminile di desiderare qualcosa e farla, spostando i propri confini sempre leggermente in avanti. Sempre nell’intervista rilasciata a Perry Miller Adato c’è un momento in cui, parlando proprio di “Cow’s Skull: Red, White, and Blue”, O’Keeffe dice: “Avevo dipinto la testa di questa mucca su un fondo azzurro, e ho pensato be’, devo aggiungere qualche altra cosa.

Gli uomini non facevano che parlare del grande romanzo americano, la grande poesia americana, il grande tutto americano. E dell’America non sapevano proprio un bel nulla. Non avevano attraversato nemmeno l’Hudson. Per cui ho dipinto una striscia rossa su ogni lato e ho fatto un grande dipinto americano”. Così gli uomini secondo O’Keeffe.

Di O’Keeffe restano oggi, insieme alle opere, centinaia di magnifici ritratti fotografici (circa seicento solo quelli realizzati dal marito Stieglitz, alcuni dei quali sono stati recentemente acquisiti e oggi diventati parte della magnifica collezione permanente del Georgia O’Keeffe Museum di Santa Fe, in New Mexico), e la raccontano meglio di qualsiasi biografia.

I primi sono proprio quelli di Stieglitz (l’avrebbe fotografata dal 1917 al 1937, realizzando in parte il progetto, avanguardistico per quegli anni, di raccontare per immagini l’intera vita di una persona), e includono diversi nudi realizzati all’inizio della loro relazione. Insieme a Stieglitz c’è stato poi un piccolo esercito di fotografi che di volta in volta hanno catturato i diversi momenti e aspetti di O’Keeffe: Paul Strand, Cecil Beaton, Phillipe Halsman, Horst, Ansel Adams, Arnold Newman, Todd Webb, Eliot Porter, Bruce Weber, Laura Gilpin, Dan Budnick e dozzine di altri.

Molte di queste foto sono state scattate in New Mexico, in una delle due case dove Georgia O’Keeffe ha trascorso la seconda metà della sua vita. La prima è ad Abiquiu, una minuscola cittadina del New Mexico un’ottantina di chilometri a nord di Santa Fe, affacciata sui canyon imponenti e bianchissimi della Plaza Blanca. La seconda è all’interno del vicino Ghost Ranch, circondata da colline rosse (le “Red Hills” dei suoi quadri) e con vista sul Cerro Pedernal, la montagna blu così amata dall’artista che a un certo punto avrebbe dichiarato: “Dio mi ha detto che se la disegno un numero sufficiente di volte, potrò averla”.

Nel dirlo scherzava, ma in arte e vita desiderava possedere i luoghi più di quanto non desiderasse le persone. In un’intervista rilasciata nel 1976 al New York Times avrebbe spiegato così la sua scelta di appartenere a quella particolare geografia desertica e solitaria: “La prima volta che sono venuta nel Southwest era il 1917 e sono stata all’incirca tre giorni. Sapevo già allora che sarei tornata, e l’ho fatto nel 1929 per due mesi e mezzo. Ho deciso che sarebbe stato il mio paese. Sapevo di volere stare qui”. Più avanti, stessa intervista: “Era come essere vicino all’oceano, solo che stavi sulla terraferma. Il cielo era meraviglioso. Il primo anno non si è vista una sola goccia di pioggia”.

È nata a Bolzano e ha vissuto ad Algeri e Palermo. Abita tra Roma e New York, dove traduce e scrive di libri, cinema e fumetti per La Repubblica, Il venerdì e D. Ha tradotto, tra gli altri, Charles Bukowski, Tom Wolfe, Jacques Derrida, A.M. Homes, Douglas Coupland, James Franco, Lillian Roxon e Lena Dunham, e ha tradotto e curato la nuova edizione italiana di Jim entra nel campo di basket di Jim Carroll (minimum fax, 2012). Insieme a Daniele Marotta è autrice del graphic novel Superzelda. La vita disegnata di Zelda Fitzgerald (minimum fax, 2011), pubblicato anche in Spagna, Sudamerica, Stati Uniti, Canada e Francia.

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